IL PRESBITERIO

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Nel presbiterio, le quattro colonne angolari divengono colonne corinzie con capitelli ornatissimi, e sostengono una cornice, il cui fregio ha in altorilievo una corona di angeli.

Le due prime colonne, poste ai lati dell’arco acuto, si presentano più spoglie di ornati rispetto alle due altre più interne e sono ricolme nei fusti di copiose decorazioni plastiche, distribuiti in quattro riquadri e alternati ad altrettanti ovali con mezze figure di profeti e sibille.

 

Nello specifico, alla colonna angolare destra troviamo raffigurata, dal basso verso l’alto, la sibilla libica, gli ebrei in preghiera nel deserto, il profeta Sofonìa e il serpente bronzeo crocifisso.

 

Nella colonna angolare sinistra, invece, presenta la sibilla eritrea, Mosè che fa sgorgare l’acqua dalla roccia con la verga, il profeta Abacuc e l’adorazione del vitello d’oro.

Il tema delle sibille e dei profeti, presente nell’iconografia rinascimentale, era già da tempo entrato nella tradizione artistica.

Michelangelo, Raffaello, il Pinturicchio, il Gagini, avevano introdotto nei loro cicli decorativi le profetesse della tradizione pagana le cui profezie venivano messe in relazione ed interpretate, anche da teologi cattolici, come allusive della venuta di Cristo e delle Vergine.

La compresenza dei profeti della tradizione ebraica e delle classiche sibille, è indicativa della convergenza tra la tradizione culturale biblica e quella umanistica.

Secondo lo storico dell’arte Edgar Wind, le sibille rappresenterebbero i carismi, nonché i doni spirituali della teologia paolina, la libica del psalmus, cioè del canto in onore di Dio, mentre l’eritrea dell’interpretatio, il dono della comprensione dei linguaggi misteriosi.

Anche i profeti, spiriti eletti, rilevano uno speciale carisma d’ispirazione che conferiva ai loro scritti il valore di libri sacri.

I profeti d’Israele erano infatti i portavoce di Jahvè e del suo messaggio divino.

Sofonìa, profeta minore del periodo assiro, nel suo libro annunzia i castighi del Signore come promessa di salvezza per i tempi messianici, è proprio nel suo testo che si preannuncia la terrificante figura del giorno di Jahvè.

Del profeta Abacuc, San Paolo ne farà uno dei capisaldi della sua dottrina religiosa; il suo libretto è incentrato sulla giustizia divina che governerà il mondo.

La figura centrale dei rilievi nei riquadri delle colonne rimane quella di Mosè, figlio del faraone, condottiero e legislatore del popolo ebraico.

La famosa verga che porta sempre con sé, che sa trasformare in serpente e far ritornare verga a suo piacimento e che battuta sulla roccia fa zampillare l’acqua che placa il popolo assetato, non è che il caduceo, simbolo dell’alchimia.

Ed anche il vitello d’oro che gli ebrei innalzarono come loro idolo e adorarono insieme al simulacro di Refàn è, a sua volta, simbolo alchemico della terra.

Non si tratta solo di un caso, infatti, se il vitello d’oro ed il serpente siano raffigurati in posizione privilegiata, alla sommità dei fusti delle colonne e coperti da una doratura che richiama alla mente i posteriori geroglifici delle virtù serpottiane.

Ai lati delle colonne, in due nicchie ricavate nello spessore dei pilastri su cui si imposta l’arco acuto di accesso al coro, sono le statue di S. Pietro e di S. Paolo, quasi a voler indicare con questo che sul loro esempio e sulla loro dottrina si fonda la stabilità della chiesa.

Sotto di loro, in due teatrini prospettici, erano raffigurate scene della loro vita: la Conversione per S. Paolo e la Consegna delle chiavi per S. Pietro.

Tali scene restano alquanto degradate, solo alcune figurine della scena di S. Pietro, mentre non rimane traccia della “caduta sulla via di Damasco”.

Su due mensole, sopra le statue dei due apostoli, le figure a grandezza naturale di Giacobbe e di Isaia.

Dietro la possente figura del profeta Isaia che, col braccio alzato e l’indice rivolto in alto, sembra indicare l’estremo germoglio dell’albero di Jesse, reca tale iscrizione: “ET EGREDIETVR VIRGA DE RADICE JESSE ET FLOS E RADICE EIVS ASCENDET ET REQVIESCET SVPER EVM SPIRITVS DOMINI ET PERCVTIET TERRAM VIRGA ORISSVI”.

“Ed uscirà un rampollo dal ceppo di Jesse, e un germoglio spunterà dalla sua radice. E si poserà su di lui lo spirito del Signore; e percuoterà la terra con la verga della sua bocca”.

Sotto la statua di Isaia è affrescata la sua visione profetica così come ci è presentata dal Vecchio Testamento “VIDI DOMINVM SEDENTVM SVPER SOLIVM EXELSVM ET ELEVATVM, ET PLENA ERAT DOMVS A MAIESTATE EIVS”, “Vidi il Signore, che sedeva sopra un alto ed elevato trono; ed il tempio era pieno della maestà di lui”.

Dietro Giacobbe, progenitore delle dodici tribù d’Israele, si legge invece: “NON AUFERETUR SCEPTRVM DE JVDA ET DVX AVFERETVR SCEPTRVM DE JVDA ET DVX DE FEMORE EIVS DONEC VENIAT QUI MITTENDVS EST ET IPSE ERIT EXPECTATIO GENTLVM”. “Lo scettro non sarà tolto da Giuda, finché venga colui che deve essere mandato: Egli sarà l’aspettato delle genti”.

Sotto la statua, un altro affresco raffigura il Sogno di Giacobbe: “IACOB IN SOMNIS: SCALAM STANTEM TERRA ET CACUMEN ILLIUS TANGENS CAELUM”.

“Giacobbe vide nel sogno una scala poggiata in terra e la sua cima toccava il cielo”.

La scala, che Giacobbe vede in sogno, percorsa da cherubini che salivano e scendevano per i suoi gradini, è stata vista dai teologi come figura di Cristo che unisce il cielo alla terra, l’uomo a Dio, invece per i filosofi dell’Umanesimo rappresentava le tappe progressive che l’uomo doveva seguire per penetrare nella realtà delle cose e risalire alla comprensione dell’universale ricostituendo l’unità del tutto.

 

Stanno ai lati dell’Albero di Jesse, sul mensolone, i profeti ZaccariaMichea e, affrescate sulla parete di fondo, intente a scrivere le loro sentenze, le sibille delfica persica.

Zaccaria predice la sicura rinascita del popolo, promessa da Dio, e la punizione dei popoli confinanti: “una nuova teocrazia è in atto”.

Michea è il profeta degli umili e dei poveri, predice che il Messia sarà la Pace, cioè il pacificatore per eccellenza. Ha in comune con Isaia uno dei più bei vaticini messianici.

La sibilla delfica, cara ad Apollo, è simbolo della lingua; mentre la persica, indaga verità complesse e profonde, proponendosi come incarnazione della revelatio.

Di fronte, sdraiate, al culmine dell’arco di trionfo che divide il presbiterio dalla navata, le sibille cumana e tiburtina.

La tiburtina regge un nastro con la scritta “GREMIVM VIRGINIS ERIT SLUS GENTIVM” che allude al mistero dell’incarnazione di Cristo.

Di derivazione virgiliana è invece la scritta che reca la sibilla cumana: “(IAM NOVA PROGE) NIES CELO DIMICTITVR ALTO IAM REDIT ET VIRGO”, “Già una nuova stirpe scende dall’alto del cielo e già ritorna la Vergine”.

Tale scritta rimanda alla quarta Ecloga che fece annoverare Virgilio tra i profeti di Cristo per aver divinato “nel futuro un’epoca felice e nuova oltre lo spazio del tempo pagano”.

Sulle pareti, ai lati delle finestre, delimitati da telamoni a destra e cariatidi a sinistra, che ne sostengono architrave e timpano, sono affrescati episodi tratti dalle storie del Vecchio Testamento, che si ricollegano simbolicamente a fatti narrati dal Vangelo.

Nei quattro scomparti triangolari prossimi alla volta troviamo: alla parete di destra Canio ed Abele sacrificano a Dio e Caino uccide Abele; mentre all’altra La costruzione dell’arca e, appena intuibile per il forte degrado, L’ebbrezza di Noè.

La simbologia è chiara: Abele prefigura il Messia ucciso dal suo stesso popolo; l’arca di Noè è simbolo di Cristo in quanto unico mezzo di salvezza dal diluvio e dal peccato.

Negli scomparti trapezoidali sono affrescati: a destra Ezechiele tra Oholà e Oholibà; accoppiato ad affresco, ma andato largamente perduto, si riconosce il tema di Tobiolo col pesce e l’Angelo; alla parete opposta, Giuditta uccide Oloferne, Tobiolo guarisce Tobia dalla cecità.

La volta a crociera del presbiterio è scompartita da cornici che delimitano ovali e riquadri affrescati e scudi con rilievi in stucco.

Nei quattro scudi posti in corrispondenza dei punti in cui la volta si imposta sulle colonne angolari sono rappresentati: L’Angelo annunziante con la scritta AVE MARIA, L’Annunziata con la scritta GRAZIA PLENA DOMINVS TECVM, La presentazione di Gesù al tempio con le parole di Simeone QUIA VIDERVNT OCVLI MEI NVNC DIMITTIS SERVVM TVVM DOMINE, “poiché i miei occhi hanno visto (la salvezza), ora puoi congedare il tuo servo o Signore”, e L’adorazione dei Magi con sopra la scritta VIDIMVS STELLAM IN ORIENTE ET VENIMVS.

I quattro ovali, delimitati da spesse cornici, sono affrescati con le scene de La Nascita di Maria (illeggibile in quanto molto rovinato), La presentazione al tempio della Vergine, La visitazione a Santa Elisabetta e La nascita di Gesù.

In quattro quadretti, ai lati del grande riquadro centrale, sono riprodotte le storie dei progenitori: La creazione di Eva, Il peccato originale, La cacciata dal paradiso terrestre, e Il lavoro degli antenati.

Essi costituiscono la premessa da cui discendono tutte le storie successive, ossia la caduta dell’uomo nel peccato e la necessità, per redimersi, dell’avvento del Messia.

Domina la volta, sia per le dimensioni, che per esserne il perno strutturale e simbolico, il grande affresco con Lo sposalizio della Vergine.

È questo uno dei temi principali presenti nel ciclo di San Domenico, in esso esiste un parallelo tra la caduta e la redenzione.

Alla caduta contribuirono quattro elementi: Adamo, l’uomo disobbediente, Eva la donna orgogliosa, un albero quello della conoscenza del bene e del male e il frutto dell’albero.

Altri quattro elementi contribuirono, invece, alla redenzione: Gesù Cristo, Maria Vergine, un albero, quello della croce e il frutto dell’albero, Cristo e l’Eucarestia. Poiché il genere umano cadde per opera di una donna era giusto che attraverso una donna venisse redento.

Da rilevare, nell’affresco, il motivo del bastone gigliato.

Nella storia di Giuseppe Falegname del IV-V sec., si narra che, dovendo andare in sposa una fanciulla di 14 anni della stirpe di David di nome Maria, ed essendo numerosi i pretendenti alla sua mano, il sommo sacerdote decise di affidare la scelta alla volontà di Dio e depositò nel Sancta Sanctorum del tempio un arido e secco bastone per ciascuno degli aspiranti.

Il giorno successivo, avendo trovato fiorito il solo bastone di Giuseppe, destinò a lui la mano di Maria.

In conseguenza di ciò tutti gli altri pretendenti spezzarono per disappunto la loro verga.

Quanto all’iconografia, il giglio tenuto da Giuseppe nella mano è appunto la verga fiorita.

L’episodio della rottura della bacchetta si trova in parecchie altre rappresentazioni dello sposalizio.

A Firenze ve ne sono due in Santa Croce una dipinta da Taddeo Gaddi dove chi rompe la bacchetta è una donna, una del Ghirlandaio in Santa Maria Novella e una dell’Orcagna in Orsamichele.

Del Carpaccio v’è uno sposalizio con rottura generale di bacchette, il che, più che ad un costume ebraico o antico, sembrerebbe alludere ad un’usanza piuttosto vicina al tempo degli artisti che dipinsero i vari sposalizi ed equivarrebbe ad un gesto simbolico come il lancio del riso nei matrimoni odierni.

È evidente la corrispondenza tra la verga fiorita di Giuseppe, il “VIRGA JESSE FLORUIT” dell’albero di Jesse, l’EGREDIETUR VIRGA della profezia di Isaia e le sentenze poetiche delle sibille cumana e tiburtina.

Nel presbiterio tutto è pregno dell’aspettativa del fanciullo che nascerà per donare al genere umano un nuovo ordine di secoli.

 

 

 

Testo tratto da P. La Rocca, Spazio e simbolo nella chiesa di San Domenico a Castelvetrano. Il restauro di ammodernamento di Carlo d’Aragona e Antonio Ferraro, pp. 140 – 153