L’ALBERO DI JESSE

Figura centrale, sdraiato sopra una mensola tangente la ghiera dell’arco acuto d’ingresso al coro, sta Jesse, dal cui fianco spunta un albero, sui rami del quale siedono dodici re di Giuda ed in cima la Madonna con bambino, incoronata da due angeli.

Il gruppo plastico occupa tutta la parete orientale del presbiterio sovrastante l’arco ed è una delle più grandiose esercitazioni scultoree che mai si siano svolte su questo tema.

Gli stucchi sono colorati e ricoperti da dorature.

Rappresenta la discendenza di Cristo secondo le genealogie evangeliche.

È un simbolo che trae origine dall’elaborazione concettuale della profezia di Isaia: “Un germoglio spunterà dal tronco di Jesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e si intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore”.

L’albero di Jesse rappresenta la catena delle generazioni fino a Cristo, che vengono narrate nella Bibbia dai profeti; Jesse era, il padre di Davide, fondatore della stirpe che sarebbe culminata con la Vergine e con Cristo.

Il motivo allegorico dell’albero, a carattere mitico o dottrinale, affonda le sue radici nel Medioevo e pare che risalga all’abate Suger di Saint Denis del XII sec.

Con il tempo si verificò un progressivo ridimensionamento della figura del Cristo che finì per regredire, visivamente e simbolicamente, allo stadio infantile, mentre acquisì rilevanza l’immagine della Vergine.

Come albero della croce lo troviamo in un mosaico dell’abside di S. Clemente a Roma (XII sec.).

Come albero della vita è presente in un affresco del 1343 a S.M. Maggiore di Bergamo; in una tavola di Pacino di Bonaguida e nel litostrato della Cattedrale di Otranto (1163-1165).

 

Come albero genealogico abbiamo degli esempi a Parma con l’albero di Jesse di Benedetto Antelami  negli stipiti del Battistero.

Ad Orvieto è Maitani a realizzare un albero nei rilievi sulla facciata del Duomo e ancora gli affreschi di Cavallini presenti nella Cappella degli affreschi in San Domenico Maggiore a Napoli.

 

Recenti indagini attribuiscono a Giuseppe Arcimboldi un affresco del Duomo di Monza in cui la croce è vista come un albero alla cui base è Adamo, mentre sui rami siedono i re di Giuda.

Alberi di Jesse ritroviamo anche fuori l’Italia: in una vetrata nell’Abbazia di Jarcy del XV sec, alla cattedrale di Chartres in Francia e in un affresco nella chiesa di Bjaresjo in Svezia.

Ma il più antico albero si trova in una vetrata della chiesa di Saint-Denis, anteriore al 1144.

Il motivo archetipico dell’albero cosmico è fondamentale presso antiche civiltà e religioni come quella indiana.

Il grande albero della vita simbolo dell’energia cosmica, dell’immortalità, della conoscenza universale si trova congiunto a immagini significanti insidia, distruzione, pericoli mortali, per lo più rappresentati da un drago o da un serpente, come nella Bibbia.

In quasi tutti questi miti, l’albero è associato all’immagine di una donna, l’energia universale è sentita come potenza femminile, fonte di vita e insieme di morte: è la natura, vergine e madre, che crea e distrugge il ciclo perenne dell’esistenza.

La natura che domina con la sua legge l’eterno divenire dell’universo.

Con il Cristianesimo, è la croce stessa ad essere assimilata all’albero cosmico nella sua qualità di simbolo, di centro del mondo, attraverso la Croce avviene la comunicazione con il cielo.

Ma l’albero di San Domenico sembra quasi certamente avere le sue radici in uno spettacolo teatrale che si rappresentava in quel periodo nella capitale dell’Isola: L’atto della Pinta, scritto dal benedettino mantovano Teofilo Folengo, autore di commedie in latino, che avrebbe composto l’opera durante il suo soggiorno in Sicilia, dal 1537 al 1543.

L’Atto della Pinta venne rappresentato per la prima volta a Palermo nell’omonima chiesa nel 1538 e successivamente replicato nel ’62, nel ’68 e nel ’70, fino all’ultima rappresentazione del 1601.

Nelle espressioni di Vincenzo Di Giovanni sembra quasi di vedere, descritto a parole, quanto poi il Ferraro avrebbe tradotto in fresco e stucco:

“Si veggono tutti i profeti e sibille, e si sentono le lor profezie. Si vede l’Annunciazione dell’angolo Gabriello a Maria Vergine; e si veggono altre demostrazioni e ultimamente uscire di sotto terra un albero con la beatissima Vergine in cima, e tutti i re ne’ rami da cui essa trasse l’origine, che con suavissima musica e ricchissimo apparato rapiscono l’animo delle persone riguardanti, obliando ogni altra cura, pensandosi per quelle essere veramente in paradiso”.

Analoga meraviglia desta nel visitatore la complessa macchina di stucco in San Domenico, che si staglia su uno sfondo affrescato con alla base l’immagine di una città, e più in alto gli angeli in volo.

Sui rami inferiori dell’albero siedono: David, figlio di Jesse e Salomone, Roboamo suo discendente, e Asa.

Sui rami intermedi stanno Giosafat, figlio e successore di Asa, noto per aver combattuto l’idolatria ed organizzato il regno di Giuda respingendo un’invasione degli Ammoniti; Joram, figlio e successore di Josafat, che s’inimicò i sudditi per aver fatto uccidere tutti i suoi fratelli; Ozia, che ottenne importanti vittorie sui Filistei e sui piccoli stati della Transgiordania; Joatam, figlio di Ozia, che abbellì il tempio di Gerusalemme e vinse gli Ammoniti.

Sui rami superiori sono Achaz, figlio di Joatam, dedito all’idolatria, sotto di lui, il regno di Giuda, per difendersi da Israele e Damasco, passò sotto l’alto dominio della Siria.

Ed ancora Ezechia, figlio e successore di Achaz, che operò grandi riforme religiose; Manasse, figlio di Ezechia, che dopo essere stato deportato a Babilonia, schiavo di Assurbanipal, si pentì dei suoi errori e, tornato a Gerusalemme distrusse i templi degli idoli fenici da lui fatti prima costruire; infine Giosia, anche lui promotore di grandi riforme religiose.

Ogni re di Giuda tiene in mano il simbolo del proprio potere, tranne David intento a suonare uno strumento musicale. Tutti indossano un caratteristico copricapo orientale e reggono un nastro su cui è inciso il proprio nome.

Stanno ai lati dell’Albero di Jesse, sul mensolone, i profeti Michea e Zaccaria e, affrescate sulla parete di fondo, intente a scrivere le loro sentenze, le sibille persica e delfica.

Michea è il profeta degli umili e dei poveri, predice che il Messia sarà la Pace, cioè il pacificatore per eccellenza. Ha in comune con Isaia uno dei più bei vaticini messianici.

Zaccaria predice la sicura rinascita del popolo, promessa da Dio, e la punizione dei popoli confinanti: “una nuova teocrazia è in atto”.

La sibilla persica, indaga verità complesse e profonde, proponendosi come incarnazione della revelatio; mentre la delfica, cara ad Apollo, è simbolo della lingua.

Di fronte, sdraiate, al culmine dell’arco di trionfo che divide il presbiterio dalla navata, le sibille cumana e tiburtina.

La tiburtina regge un nastro con la scritta “GREMIVM VIRGINIS ERIT SLUS GENTIVM” che allude al mistero dell’incarnazione di Cristo.

Di derivazione virgiliana è invece la scritta che reca la sibilla cumana: “(IAM NOVA PROGE) NIES CELO DIMICTITVR ALTO IAM REDIT ET VIRGO”, “Già una nuova stirpe scende dall’alto del cielo e già ritorna la Vergine”.

Tale scritta rimanda alla quarta Ecloga che fece annoverare Virgilio tra i profeti di Cristo per aver divinato “nel futuro un’epoca felice e nuova oltre lo spazio del tempo pagano”.

Sulle pareti, ai lati delle finestre, delimitati da telamoni a destra e cariatidi a sinistra, che ne sostengono architrave e timpano, sono affrescati episodi tratti dalle storie del Vecchio Testamento, che si ricollegano simbolicamente a fatti narrati dal Vangelo.

Nei quattro scomparti triangolari prossimi alla volta troviamo: alla parete di destra Canio ed Abele sacrificano a Dio e Caino uccide Abele; mentre all’altra La costruzione dell’arca e, appena intuibile per il forte degrado, L’ebbrezza di Noè.

La simbologia è chiara: Abele prefigura il Messia ucciso dal suo stesso popolo; l’arca di Noè è simbolo di Cristo in quanto unico mezzo di salvezza dal diluvio e dal peccato.

Negli scomparti trapezoidali sono affrescati: a destra Ezechiele tra Oholà e Oholibà; accoppiato ad affresco, ma andato largamente perduto, si riconosce il tema di Tobiolo col pesce e l’Angelo; alla parete opposta, Giuditta uccide Oloferne, Tobiolo guarisce Tobia dalla cecità.

La volta a crociera del presbiterio è scompartita da cornici che delimitano ovali e riquadri affrescati e scudi con rilievi in stucco.

Nei quattro scudi posti in corrispondenza dei punti in cui la volta si imposta sulle colonne angolari sono rappresentati: L’Angelo annunziante, con la scritta AVE MARIA, L’Annunziata, con la scritta GRAZIA PLENA, DOMINVS TECVM, La presentazione di Gesù al tempio, con le parole di Simeone QUIA VIDERVNT OCVLI MEI NVNC DIMITTIS SERVVM TVVM DOMINE, “poiché i miei occhi hanno visto (la salvezza), ora puoi congedare il tuo servo o Signore”, e L’adorazione dei Magi con sopra la scritta VIDIMVS STELLAM IN ORIENTE ET VENIMVS.

I quattro ovali, delimitati da spesse cornici, sono affrescati con le scene de La Nascita di Maria (illeggibile in quanto molto rovinato), La presentazione al tempio della Vergine, La visitazione a Santa Elisabetta e La nascita di Gesù.

In quattro quadretti, ai lati del grande riquadro centrale, sono riprodotte le storie dei progenitori: La creazione di Eva, Il peccato originale, La cacciata dal paradiso terrestre, e Il lavoro degli antenati.

Essi costituiscono la premessa da cui discendono tutte le storie successive, ossia la caduta dell’uomo nel peccato e la necessità, per redimersi, dell’avvento del Messia.

Domina la volta, sia per le dimensioni, che per esserne il perno strutturale e simbolico, il grande affresco con Lo sposalizio della Vergine.

È questo uno dei temi principali presenti nel ciclo di San Domenico, in esso esiste un parallelo tra la caduta e la redenzione.

Alla caduta contribuirono quattro elementi: Adamo, l’uomo disobbediente, Eva la donna orgogliosa, un albero quello della conoscenza del bene e del male e il frutto dell’albero.

Altri quattro elementi contribuirono, invece, alla redenzione: Gesù Cristo, Maria Vergine, un albero, quello della croce e il frutto dell’albero, Cristo e l’Eucarestia. Poiché il genere umano cadde per opera di una donna era giusto che attraverso una donna venisse redento.

Da rilevare, nell’affresco, il motivo del bastone gigliato.

Nella storia di Giuseppe Falegname del IV-V sec., si narra che, dovendo andare in sposa una fanciulla di 14 anni della stirpe di David di nome Maria, ed essendo numerosi i pretendenti alla sua mano, il sommo sacerdote decise di affidare la scelta alla volontà di Dio e depositò nel Sancta Sanctorum del tempio un arido e secco bastone per ciascuno degli aspiranti.

Il giorno successivo, avendo trovato fiorito il solo bastone di Giuseppe, destinò a lui la mano di Maria.

In conseguenza di ciò tutti gli altri pretendenti spezzarono per disappunto la loro verga.

Quanto all’iconografia, il giglio tenuto da Giuseppe nella mano è appunto la verga fiorita.

L’episodio della rottura della bacchetta si trova in parecchie altre rappresentazioni dello sposalizio.

A Firenze ve ne sono due in Santa Croce una delle quali, dipinta da Taddeo Gaddi dove chi rompe la bacchetta è una donna, una del Ghirlandaio in Santa Maria Novella e una dell’Orcagna in Orsamichele.

Del Carpaccio v’è uno sposalizio con rottura generale di bacchette, il che, più che ad un costume ebraico o antico, sembrerebbe alludere ad un’usanza piuttosto vicina al tempo degli artisti che dipinsero i vari sposalizi ed equivarrebbe ad un gesto simbolico come il lancio del riso nei matrimoni odierni.

È evidente la corrispondenza tra la verga fiorita di Giuseppe, il “VIRGA JESSE FLORUIT” dell’albero di Jesse, l’EGREDIETUR VIRGA della profezia di Isaia e le sentenze poetiche delle sibille cumana e tiburtina.

Nel presbiterio tutto è pregno dell’aspettativa del fanciullo che nascerà per donare al genere umano un nuovo ordine di secoli.

 

 

 

Testo tratto da P. La Rocca, Spazio e simbolo nella chiesa di San Domenico a Castelvetrano. Il restauro di ammodernamento di Carlo d’Aragona e Antonio Ferraro, pp. 127 – 139.